Lenti, brutti e nemmeno cattivi

Roberto Beccantini21 marzo 2021

Una partita vecchia, da clamoroso al Cibali, con il Benevento di Inzaghi che butta giù la Juventus dalla sua flemma e Pirlo dal suo torello orizzontale, una serie infinita e sfinita di starnuti. Quelli che guardano il dito: Montipò è stato il migliore, Morata si è mangiato un paio di gol, idem Danilo, manca un rigorino su Chiesa, e l’errore di Arthur, colui che ha aperto il mar Rosso a Gaich, non è da Tiranna, è da dama di corte (se va bene).

E’ la luna che bisogna fissare, la prima sconfitta interna dopo sette vittorie, il modo in cui Madama è salita sul ring, fingendo di dominarlo, brutta, lenta e neppure cattiva, la difesa a tre dei rivali mai in crisi, al massimo in difficoltà, Hetemaj e Lapadula assatanati, Gaich letale, tutti al servizio di tutti.

Spero che sia colpa di Pirlo. Ma, ripeto, temo di no. Non solo, almeno. Avrebbe potuto togliere subito Chiesa dalla fascia sinistra? Forse. Kulusevski, a destra, o rientra per tirare (di mancino) o per crossare di destro impiega una vita. Pretendere scintille da Rabiot, e dallo stesso Arthur, non esiste. Si sapeva: la Juventus ha un centrocampo rugbistico, il cui unico lanciatore appartiene geograficamente alla Maginot (Bonucci).

Il Benevento, come le provinciali d’antan, ha fatto catenaccio, con graffi di fuorigioco e morsi di pressing a disturbare i lombi nobili di campioni spocchiosi. Gira e rigira, Cristiano è stato colui che ha tirato di più, non però con la magia che ne governa di solito le traiettorie. E sulle punizioni, non si è tolto: le ha battute. Due, entrambe sulla barriera: un destino.

La sosta moltiplicherà mal di pancia e processi sommari. Agnelli pensi di più alla Juventus di oggi e meno alla Superlega di domani. Lo scudetto è andato, e dopo nove anni ci sta. A patto di non ridursi così, sul cornicione della zona Champions: in bilico, oggi, non meno di Cristiano.

E la cronaca si piegò alla storia

Roberto Beccantini16 marzo 2021

Ci sono quasi-gol che infiammano più di «certi» gol. L’azione di Vinicius, 20 anni, mi ha ricordato lo slalom di Maradona a Wembley, quando gettò i dribbling, come se fossero aquiloni, per il «barrilete» cosmico di Mexico City. Poi, è chiaro, Real-Atalanta ha avuto la sua trama, un intreccio di cui conoscete il risultato (3-1) e al quale, a differenza dell’andata, è stato estraneo l’arbitro. Una galleria di errori (Sportiello) e di parate (Courtois, due su Zapata: ma dopo l’uscita di Sergio Ramos, che sta al Madrid come il pennone alla bandiera); un mix di velocità e palleggio, vertical y Real.

Togliete alla Dea l’istinto di sbranare, e verrà sbranata. Tutti in piedi, naturalmente, perché se cadi davanti al Real non cadi mai da un marciapiede. Non c’è più il Papu, non c’è ancora Ilicic (quello, per intenderci, del poker a Valencia) e del Gasp non ho capito la rinuncia iniziale a Zapata. Per provarci, ci ha provato: solo che Zizou aveva alzato un muro di stopperoni (tre), raddoppiato le fasce, liberato Nacho, offerto a Modric e Kroos le chiavi del centrocampo, con Benzema centravanti boa (nel senso del serpente) e un Vinicius da lavori in «corsa».

D’accordo, Sportiello ha spalancato la porta a Modric che poi l’ha spalancata a Benzema; Sergio Ramos, trasfomato il rigore procurato da Vinicius; Asensio, appena entrato, sotterrato il lampo balistico di Muriel. Queste le tappe. Restano una squadra che ha alzato l’asticella sul più bello, e un’altra che viceversa, dopo Liverpool e Amsterdam, non ci è riuscita. Il destro bergamasco di Mendy avrebbe suggerito una gestione più da riffa, più da Atalanta, o la va o la spacca. No: è stata battuta – un po’ per scelta ma anche, mi sia concesso, per la forza degli avversari – una via di mezzo che non ha acceso fuochi.

E così la cronaca si è piegata alla storia.

Più Chiesa meno Cristiano: fuori

Roberto Beccantini10 marzo 2021

Fuori ai quarti con Allegri, fuori agli ottavi con Sarri, fuori ancora agli ottavi con Pirlo. Ajax, Lione, Porto: squadre toste (e gli olandesi pure bellini), non squadroni. Il problema non credo sia l’allenatore. Il problema è la Juventus. Che non riesce a giocare una partita intera, regala spesso l’andata e anche quando torna in sé si butta via di nuovo. Sono tre indizi: troppi.

Juventus-Porto 3-2 dopo Porto-Juventus 2-1 è stata una moneta gettata in aria sulla quale tutti si son buttati, famelici. Tutti, tranne Cristiano: mai così ai margini, mai così «mestiere dell’ombra». A scriverlo, non significa deformare: significa, semplicemente, informare. Se negli altri incroci era mancata la squadra, questa volta è mancato lui. Il balzo di schiena sulla punizione di Sergio Oliveira, ai supplementari, riassume e incarna la sintesi di un regno che, come tutti i regni, per grandi che possano essere, prima o poi declinano. Ha ingannato Szczesny, ha tradito la sua corona. A 36 anni, resta il marziano che è stato, ma rimarrà anche questa notte, sua comunque.

Neppure in undici contro dieci, dal 53’ al 124’, espulso Taremi, nemmeno con un Chiesa di gran livello, in gol di destro e di testa, tre reti in due partite, Chiesa che per un tempo la difesa alta di Pepe, straordinario, aveva nascosto agli schemi. Certo, ha preso un palo lui e una traversa Cuadrado, ma non puoi sempre metterti in condizione di fare acqua, anzi: di farla entrare, come il rigore di Demiral su Taremi – non più netto di quello negato a Cierre a Porto, ma rigore, poi trasformato da Sergio Oliveira – come la traversa scheggiata da Taremi, come quel primo tempo spesso a rimorchio, fra un’incornata di Morata e un movimento senza palla ai minimi sindacali, tendenza allenata cocciutamente in campionato.

In Europa, se tardi ad alzarti dai blocchi, e se ti palleggi sui piedi,
Leggi tutto l’articolo…